Tutti gli indigenti ora devono dimostrare, sottoponendosi
ad alcune prove, di essere meritevoli all’assistenza offerta dalle parrocchie
e dai comuni, dove saranno registrati nell’ ”albo dei poveri”. E’ da precisare
inoltre che in questo periodo si fa sempre più viva un’ulteriore
distinzione tra poveri residenti e non residenti, con una distinzione di
assistenza solo per i primi. E’ interessante notare come questa distinzione
sia ancora presente nel nostro sistema assistenziale, mostrando un profondo
carattere anacronistico in un’epoca che si definisce di “aperture mondiali”.
Anche l’assistenza, quindi insieme la povertà,
muta di carattere appropriandosi della sola finalità di controllo
per evitare possibili conflitti sociali sempre dannosi all’ordine pubblico.
Stato e Chiesa diventano pertanto i promotori della nascita di quelle grandi
unificazioni ospedaliere della seconda metà del Quattrocento, realizzate
dalle precedenti reti di piccoli ospizi (Sandra Rocchi, 1993, p.23).
L’atteggiamento verso i poveri ed il rapporto con la mendicità
nell’epoca della Riforma protestante diventano problemi di seria portata
all’interno della Chiesa e delle coscienze. Alcuni teologi tentano di risolverlo
esprimendo la tradizionale suddivisione tra poveri e ricchi che deve essere
accettata e concepita come naturale e per cui ognuno deve vivere in base
alla propria posizione sociale, esercitando le virtù proprie di
quella condizione: per i poveri la pazienza, la subordinazione e rassegnazione,
per i ricchi una carità che metta a disposizione il superfluo a
favore dei ceti più miseri. Altri teologi, come ad esempio Vives,
un umanista erasmiano, propone una nuova soluzione interpretativa sia dell’assistenza
ecclesiastica che della povertà, per cui all’idea della povertà
si sostituisce quella del lavoro.
Si assiste così ad un rovesciamento della visione
caritativa del messaggio evangelico che sempre più si avvicina alla
ragione di Stato: anche nella coscienza religiosa il povero non è
più l’“immagine di Cristo” ma un soggetto pericoloso e fondamentalmente
ozioso (Sandra Rocchi, 1993, p. 24).