Tra i criteri comunemente utilizzati
per definire l’azione volontaria, occupa un posto di rilievo quello della
gratuità, intesa in senso negativo come assenza di retribuzione
per le prestazioni del volontariato ed in senso positivo come atteggiamento
etico che privilegia il fine solidaristico ed altruista rispetto a quello
utilitarista.
I volontari devono continuamente
chiedersi perché fanno certe cose, perché dedicano tanto
tempo all’azione gratuita, in fondo devono chiedersi “chi glielo fa fare
?”. Questa esigenza è reale sia per chi non ha ancora deciso di
operare nel sociale, sia per quanti sono già impegnati da anni in
un certo cammino.
Da più parti, e non da oggi,
si mette in dubbio l’esistenza di un modello di gratuità assoluta
e si dà quasi per scontato che solo una gratuità “sui generis”,
legata ad una certa retribuzione, sia di fatto delegabile e compatibile
con l’azione volontaria.
I dubbi sul concetto di gratuità
si intrecciano necessariamente
con una serie di riflessioni e
teorie, concepite a più livelli, sul significato che assume il persistere
e spesso il diffondersi, di comportamenti altruistici, non utilitaristici,
in una società come la nostra dominata dal modello contrattuale
(F. Busnelli, 1995, p. 1).
A questo proposito è opportuno
considerare cosa si intenda precisamente per altruismo e quali siano le
principali teorie a riguardo poste poi in relazione con la realtà
del volontariato.
L’altruismo in quanto termine psicologico,
è la disposizione a vivere per gli altri, opposta all’egocentrismo,
ossia è la disinteressata attenzione per il benessere altrui.
(D. G. Myers, 1986, p.222)
Sul perché si aiutano gli
altri invece, le teorie sono molteplici e controverse, tra cui le più
evidenti sono le seguenti: